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La lingua tabarchina: una lingua duttile, efficace e assolutamente attuale

Eredità di un passato avventuroso, il tabarchino è senza dubbio l’elemento più caratterizzante dell’isola di San Pietro. Carlofortini e calasettani lo parlano abitualmente, lo difendono, lo vivono e, soprattutto, lo amano.

 

Intorno ai quattro grandi ficus della piazza ci sono i barüffi, i sedili circolari in ferro battuto dove si ritrovano gli anziani del paese. Se ne stanno lì a discorrere del tempo, del mare e di vecchi naufragi, mentre i bambini giocano a palla e le mamme intrattengono interminabili discussioni al cellulare: una scena che si ripete uguale in qualsiasi paese o cittadina del mondo.
A un certo punto, uno dei bambini scivola sulla palla, dà una sederata per terra e scoppia a piangere.
La mamma va a soccorrerlo e gli dice:

“Meicö, nu stò à cianze, che a mamma a te tie sciü” (poverino, non piangere, adesso la mamma ti rimette in piedi).

Il bambino insiste, in lacrime, sotto lo sguardo dei vecchi impassibili: “Ma me fa mò, ma me fa mò” (mi fa male). La mamma: “E àua, ascidiuzu! Tite sciü e vagni turna à divertise” (su, non fare il noioso, alzati e torna a giocare). La voce profonda di un anziano da sotto le fronde del ficus: “Nu se dixe divertise, o Grasiédda, se dixe demuose” (non si dice divertise, Graziella, si dice demuose).
L’aneddoto è assolutamente vero e riflette in maniera inequivocabile il rapporto dei tabarchini con il loro modo di parlare. Perché i tabarchini, e non solo gli anziani, alla propria lingua ci tengono, e alcuni di loro ne vivono l’inevitabile trasformazione con una certa inquietudine. Un atteggiamento alle volte eccessivo, perché il tabarchino non è un reperto d’altri tempi, da tenere in naftalina o sotto una campana di vetro, ma uno strumento di comunicazione duttile ed efficace, assolutamente attuale per circa diecimila persone tra Carloforte e Calasetta. E poco importa allora se gritta viene sostituito da granciu, e se qualcuno non ricorda più che “lucertola” si dice grìgua, o “pipistrello”, ratupenügau. Vale di più che ci sia ancora tanta creatività linguistica da dire che una macchina a s’ormezze, “si ormeggia”, invece di parcheggiarla, e che i tavolini del bar sono i banchétti.
Questa capacità della lingua di reinventarsi e di ricrearsi adattandosi a esigenze nuove è il vero segnale della sua straordinaria vitalità, riflessa da percentuali “bulgare” nell’uso quotidiano, che nessun’altra parlata tradizionale, in Italia, può vantare.
Dati del 2006, raccolti dalla Regione Autonoma della Sardegna, parlano per Carloforte di un 86,7% di locutori tabarchini, con un 84% di giovani tra i quindici e i trentaquattro anni saldamente ancorati all’uso della lingua locale, e di una distribuzione sostanzialmente omogenea di parlanti per sesso (88,9% di maschi e 82,2% di femmine), classe sociale e persino livello d’istruzione. Parla tabarchino, ad esempio, il 90,2% delle persone con titolo di studio fino alla terza media; l’81,6% dei diplomati e l’80% dei laureati; ed è significativo, in ogni caso, che anche il 13,3% di persone che non parla il tabarchino ne abbia quanto meno una competenza passiva; mentre il sardo è conosciuto (ma non parlato!) da un esiguo 12,2%. Chi viene dal resto della Sardegna, così, deve per forza adattarsi – ci sono stati casi di separazione per incompatibilità linguistica –, anche perché le statistiche parlano di un uso assolutamente prevalente del tabarchino rispetto all’italiano, non solo in famiglia, ma al bar, nei negozi, negli uffici. Persino in chiesa.
Lo stesso Consiglio Comunale ne ammette l’uso: i nomi delle strade sono rigorosamente bilingui, persino i graffiti sui muri sono spesso vergati in tabarchino; l’annuale Festival della Canzone Tabarchina suscita passioni che manco quello di Sanremo. Radio e televisioni locali trasmettono spesso in tabarchino, e le scuole di ogni ordine e grado hanno promosso da tempo iniziative didattiche sulla lingua locale, non tanto per insegnarla, che sarebbe inutile visto che i bambini e i ragazzi la conoscono, ma per comunicare attraverso di essa la storia e la geografia locale, per tramandare la memoria collettiva, per informare sulla realtà quotidiana e sui problemi dell’isola.
Si tratta di iniziative volute dai genitori e fortemente appoggiate dal corpo insegnante, tanto che, qualche anno fa, quando si trattò di fissare una grafia standard per la didattica del tabarchino, le scuole locali organizzarono una serie di assemblee pubbliche dove ognuno (e furono in molti) poteva dire la sua.
Ne uscì fuori anche una grammatica, e di lì a poco i libri di testo, illustrati dai ragazzi, che costituiscono l’orgoglio delle maestre della scuola elementare: un episodio di promozione linguistica dal basso più unico che raro rispetto alle tante e discusse iniziative che riguardano, in Italia, la valorizzazione e la tutela delle lingue minori.
Eppure, si diceva, Carloforte non è un mondo isolato e rinchiuso nel rimpianto del proprio passato, vive la contemporaneità senza complessi, e non c’è affatto, come appunto succede spesso in altre realtà minoritarie, lo sbandieramento di una specificità linguistica artefatta, tenuta in piedi da un manipolo di volenterosi cultori locali per motivi promozionali, o per più o meno esplicite pulsioni micro-nazionaliste.
Il tabarchino vive, e lo si vive, per davvero, senza piagnistei sulle lingue tagliate e sulle identità conculcate.
Forse per questo ai tabarchini non va giù la controversa legge 482 sulle lingue minoritarie, che nel
1999 ha negato loro la qualifica di minoranza linguistica storica, che la comunità scientifica è concorde
nell’attribuire a Carloforte e Calasetta.
Per un pasticcio tutto italiano, dunque, questi due Comuni sono gli unici in tutta la Sardegna a non essere ammessi alla doverosa tutela di un patrimonio linguistico che, con ben altra lungimiranza – qui il paradosso rasenta la farsa –, la legislazione regionale riconosce invece come parte integrante della specificità sarda. Proposte di emendamento, disegni di legge e interrogazioni parlamentari si sono susseguite, così, dal 1999 a oggi, senza intaccare il muro di gomma che la lobby delle minoranze riconosciute ha opposto al riconoscimento del tabarchino e di alcune altre realtà escluse dalla tutela. Cosa che non impedisce ai parlanti, sia chiaro, di continuare a manifestare la propria irriducibile specificità linguistica e culturale sulla scia di una tradizione plurisecolare.

Articolo di Fiorenzo Toso presente nella guida “Carloforte e l’Isola di San Pietro”

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